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Women

in mining

Testi e interviste Eleonora Vio

Foto e video Ines Della Valle

Guerre. Minerali sporchi di sangue. Malattie. Stupri. Per gran parte dell’opinione pubblica, questa è la Repubblica Democratica del Congo (RDC). Ma, oggi, nelle province ad est dello stato africano grande quanto tutta l’Europa occidentale si sta assistendo finalmente a qualcosa di diverso. Nel mezzo di un territorio tra i più ricchi per risorse sotterranee, dove si sfiora uno dei PIL pro capite più bassi su scala globale, sono le donne, da sempre odiate e discriminate, a farsi interpreti di una rivoluzione che sta contribuendo non solo a cambiare l’immagine del Paese, ma anche quella del settore minerario artigianale (SMA), conosciuto principalmente per la corruzione proliferante e i troppi abusi commessi, nascosti, e poi dimenticati. Dal 2006 le donne hanno cominciato a unirsi in associazioni e quasi dieci anni dopo si sono strette in un fitto network nazionale formalmente riconosciuto come RENAFEM. All’interno di questa rete rientrano donne ambiziose, talvolta privilegiate, che grazie al business dei minerali hanno raggiunto un benessere economico e sociale superiore anche agli standard maschili (v. Angelique Nyirasafari, Yvette Mwanza ed Emilienne Intongwa); altre che, partendo da una posizione svantaggiata, le hanno lentamente emulate e non arretrano più di fronte a insidie e discriminazioni (v. Murekatete Beatrice o Mwamini Makanyaka); e infine, vi sono coloro che, dopo averne capita l’importanza e centralità, hanno incentrato la loro vita, partita diversamente, sulla critica battaglia a sostegno delle donne minatrici (Viviane Sebahire o Veronique Miyengo). Concentrarsi sulle opportunità che il settore minerario artigianale può offrire, non significa, però, dimenticare che le donne impiegate nelle miniere sono ancora vittime vulnerabili di un sistema basato sull’egemonia maschile (v. mama twangaises). Al contrario. Proprio per le circostanze economiche, politiche e sociali, le donne sentono sempre di più la necessità di reclamare i loro diritti e, uscendo dallo schema dominante di totale assoggettamento all’uomo, cambiare equilibri secolari, ormai malfunzionanti. Il percorso che le donne congolesi devono compiere per emanciparsi all’interno del settore minerario artigianale è lungo, e non si esaurisce qui. RENAFEM è un network potente, che sta aiutando migliaia di donne ad auto-determinarsi e a liberarsi da stereotipi e false credenze. Ma per far sì che la scalata economica vada di pari passo con quella sociale, e che ci sia un miglioramento tangibile nella vita di tutte le donne minatrici, e così delle loro famiglie e comunità, devono entrare in gioco le istituzioni.
“Il Congo è una giungla dove impunità, cattiva amministrazione e ingiustizia sono molto diffuse,” afferma la commerciante Angelique Nyirasafari, una delle nostre donne leader. “La giustizia si vende e si compra e chi non ha i soldi non viene ascoltato.” Fintanto che questo sistema non verrà sradicato dall’alto, a pagare uno dei prezzi più alti saranno, ancora e sempre, le donne.

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Angelique
Nyirasafari

A Goma ci sono due strade asfaltate. Una porta all’aeroporto internazionale, l’altra è un breve saliscendi su cui si affacciano i lussuosi compound dove alloggiano gli expat. Tutto il resto, compresa la casa di Angelique Nyirasafari, è raggiungibile solo percorrendo sentieri simili a montagne russe, spesso interrotti da minacciosi massi giganti. Nel suo caso, però, al di là di una piccola porticina metallica, il terreno vulcanico tipico della città lascia il posto a una meravigliosa villa immersa tra le piante esotiche. Nyirasafari è una distinta commerciante di minerali e membro di COOPERAMMA, la prima cooperativa mineraria formatasi nel Nord Kivu, nel territorio di Masisi ricco di cassiterite (stagno) e coltan (tantalio), nel 2011.

“Ci sono tre tipi di commercianti. Quelli che lavorano con i minatori, ovvero li pagano per lavorare sotto di loro, e vendono i minerali alle grandi compagnie e alle ditte di trasformazione. C’è una seconda categoria di commercianti, che compra direttamente nelle cave. Vanno lì, comprano e poi vendono. E infine c’è una terza categoria di quelli che posseggono una cava, ci lavorano all’interno e, quando trovano i minerali, li vendono direttamente alle compagnie o alle ditte di trasformazione. Un uomo d’affari di solito rientra nella seconda o terza categoria, mentre io le rivesto tutte e tre.”

“Ci sono tre tipi di commercianti. Quelli che lavorano con i minatori, ovvero li pagano per lavorare sotto di loro, e vendono i minerali alle grandi compagnie e alle ditte di trasformazione. C’è una seconda categoria di commercianti, che compra direttamente nelle cave. Vanno lì, comprano e poi vendono. E infine c’è una terza categoria di quelli che posseggono una cava, ci lavorano all’interno e, quando trovano i minerali, li vendono direttamente alle compagnie o alle ditte di trasformazione. Un uomo d’affari di solito rientra nella seconda o terza categoria, mentre io le rivesto tutte e tre.”

Nyirasafari è la seconda di otto figli che la madre, seconda di tre mogli, ha avuto dal padre, un grosso agricoltore della zona. “Mio padre aveva le possibilità per mandarci tutti a scuola ma, per colpa della nostra cultura, le mie sorelle si sono convinte che il loro futuro si dovesse limitare ai figli e al matrimonio,” dice Nyirasafari. “Io sono l’eccezione. Non volevo sposarmi prima di finire gli studi e mio padre mi ha supportato.” Nonostante i privilegi, Nyirasafari, un po’ come la gran parte dei congolesi, ha passato molti momenti duri. Durante la prima Grande Guerra, scoppiata nel 1996 come diretta ramificazione del genocidio compiutosi in Rwanda due anni prima, Nyirasafari – appartenente alla comunità benestante degli Hutu residente in Congo – ha perso un fratello e la cognata. Infatti, nella disperata caccia intrapresa dai Tutsi per eliminare i propri carnefici scappati nella RDC dal Rwanda, a pagare il prezzo è stato anche chi condivideva con loro solo il ceppo etnico. “Anche se ci han detto che tutte le persone rapite sono state ammazzate, non ne abbiamo la certezza,” dice Nyirasafari. “Non abbiamo più rivisto i loro corpi.” Dal giorno della scomparsa, i figli del fratello vivono con lei e la sua famiglia.

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Un tuffo
indietro

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approfondimento

Cooperative
minerarie

Germaine
Bumbu
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Fino al 2015 Nyirasafari lavorava nel settore umanitario col marito ma, volendo passare più tempo a casa coi figli, ha deciso di licenziarsi. Con i soldi messi da parte, ha cominciato, prima, a comprare minerali da piccoli commercianti e a rivenderli a Goma e, poi, a trattare direttamente con i minatori nelle cave. In Congo, il business dei minerali, per quanto dominato dagli uomini, è la porta di accesso più veloce per una donna, che voglia tentare la scalata economica e sociale. Se il coinvolgimento di Nyirasafari è recente, le donne hanno cominciato a convergere nel settore minerario - soprattutto artigianale (SMA) - nel 1982 e sono accorse in massa nel 1996, quando la compagnia mineraria nazionale, SOMINKI, ha chiuso con l’inizio della guerra e migliaia di uomini sono rimasti senza lavoro. Una volta entrata nel settore minerario, Nyirasafari, invece di concentrarsi solo sulla sua carriera, ha deciso di impegnarsi per migliorare gli standard di vita e lavoro anche delle sue colleghe. Il punto di svolta per lei è stata la conferenza nazionale delle Donne nel Settore Minerario tenutasi a Bukavo, capitale del Sud Kivu, nel 2015, supportata dalla Banca Mondiale e il governo congolese. Allora, furono poste le basi per quello che, due anni dopo, è diventato il Network Nazionale di Donne nel Settore Minerario (o RENAFEM). Dopo aver partecipato alla conferenza, Nyirasafari ha deciso di creare l’associazione Dinamica per Donne nelle Miniere (FEDEM), che oggi affianca COOPERAMMA nella protezione delle donne nel territorio di Masisi. “In Congo essere donna è la sfida più grande,” dice Nyirasafari. “Spesso sono le donne stesse a credersi inferiori agli uomini e l’uomo si sente legittimato a comportarsi come se fosse realmente superiore.” Far parte di un’associazione diventa così, per molte, l’unica via d’uscita dalla pressione costante che, sia la società che la tradizione, esercitano su di loro.

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“Nel 2015 siamo state invitate alla Conferenza Internazionale sulle Donne nelle Miniere a Bukavo. Dopo aver partecipato, ci è venuta l’idea che anche noi dovessimo fare qualcosa per proteggere le donne in questo campo. Così è nata FEDEM. Lì mi sono accorta di quanto fosse importante stare vicino alle donne coinvolte nel settore minerario. Quando non le supportiamo, le donne vittime di abuso fanno difficoltà a farsi sentire e a denunciare. Ma quando stiamo assieme, la comunicazione diventa più facile ed efficace.”

“Nel 2015 siamo state invitate alla Conferenza Internazionale sulle Donne nelle Miniere a Bukavo. Dopo aver partecipato, ci è venuta l’idea che anche noi dovessimo fare qualcosa per proteggere le donne in questo campo. Così è nata FEDEM. Lì mi sono accorta di quanto fosse importante stare vicino alle donne coinvolte nel settore minerario. Quando non le supportiamo, le donne vittime di abuso fanno difficoltà a farsi sentire e a denunciare. Ma quando stiamo assieme, la comunicazione diventa più facile ed efficace.”

Oggi Nyirasafari è impegnata anche in politica e presto sarà in lista al Senato per dare voce ai diritti calpestati delle donne di Masisi. “Pensate che all’interno di COOPERAMMA sono l’unica donna con un diploma!” sbotta, scuotendo la testa. “Le donne della mia zona pensano solo a sposarsi con i minatori e, se le cose continueranno così, a breve non ci saranno più donne alfabetizzate.” La situazione è resa ancora più complicata dal fatto che i minatori locali si sentono frustrati per i privilegi concessi agli stranieri, come il Senatore Mwangachuchu, e spesso si uniscono ai gruppi armati per rifarsi della povertà e dell’ingiustizia subite. Sono ancora le donne, a pagare il prezzo più alto di tutto questo.

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RENAFEM

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Yvette
Mwanza

Yvette Mwanza ha insistito tanto affinché non ci incontrassimo né a casa sua, né nella fabbrica di trasformazione e vendita di minerali, che gestisce quando non è occupata con gli altri importanti incarichi che ricopre. Per questo motivo, ci siamo spinti oltre il solito intrico di vie che è Goma e siamo venuti a qualche chilometro dal Rwanda, in un’oasi lontana, almeno concettualmente, dal caos della capitale. Mentre scendiamo le terrazze che gradualmente portano al Lago Kivu, intravediamo subito tra i pochi ospiti una signora con indosso un vestito di seta verde, abbinato a una parure di gioielli così luminosi da catturare lo sguardo. Yvette Mwanza è la Vicepresidente degli Operatori Minerari della Camera di Commercio della RDC e Presidente di quello stesso organo nel Nord Kivu. Mwanza è anche un modello per gran parte delle donne del Paese.

“Nella Camera di Commercio della provincia del Nord Kivu sono l’unica donna e, se paragoniamo il Nord Kivu con le altre province… il Presidente del Sud Kivu è un uomo, idem per Maniema… Infatti, penso di essere l’unica donna con questa posizione nel settore, cioè Presidente della Commissione degli Agenti Minerari. Sì, penso proprio di essere l’unica.”

“Nella Camera di Commercio della provincia del Nord Kivu sono l’unica donna e, se paragoniamo il Nord Kivu con le altre province… il Presidente del Sud Kivu è un uomo, idem per Maniema… Infatti, penso di essere l’unica donna con questa posizione nel settore, cioè Presidente della Commissione degli Agenti Minerari. Sì, penso proprio di essere l’unica.”

La missione della Camera di Commercio, e così di Mwanza, è identificare i rischi insiti nel settore minerario, per regolarizzare la vendita ed esportazione di minerali dalle zone post-conflittuali che, come il Nord Kivu, sono ancora fortemente instabili e caratterizzate da un’alta concentrazione di milizie armate. “Nonostante le difficoltà, mi accerto che la catena di approvvigionamento dei minerali destinati al commercio estero sia responsabile, e che almeno per le 3T (dalle iniziali inglesi) siano implementati gli standard internazionali di tracciabilità,” spiega Mwanza, facendo riferimento ai tre minerali base dell’elettronica mondiale che, non a caso, spopolano nel Nord Kivu, ovvero tin (cassiterite) tantalum (coltan) e tungsten (wolframite). “Visto che sia l’oro che le pietre preziose sfuggono ai controlli del mercato ufficiale, e sono spesso esposti al contrabbando, sto anche aiutando le autorità nella realizzazione di una Borsa Valori.” Mwanza è una tecnica del settore e ha una visione chiara della direzione che il settore minerario deve prendere affinché il Nord Kivu, ricchissimo di risorse minerarie, diventi competitivo su scala globale. “La prima cosa da fare per aumentare una produzione ancora insoddisfacente,” spiega Mwanza, “è spingere i minatori a riunirsi in cooperative, che devono a loro volta avere il supporto materiale dello stato per meccanizzarsi e, così facendo, sfruttare aree più estese in minor tempo, e realizzando maggiori profitti.” Per le donne, che spesso ricoprono ruoli marginali altrimenti eseguiti dalle macchine, vale lo stesso discorso. “Non è vero che le donne analfabete rischiano di perdere il lavoro,” sostiene Mwanza.

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Tracciabilità

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“Le donne devono essere formalizzate attorno a delle cooperative con tutti i documenti e devono anche crescere in termini di capacity building. Per ottenere finanziamenti dalle banche o da qualunque altra istituzione, devono mostrare di possedere buone capacità gestionali. Inoltre, ora abbiamo anche un vantaggio con il nuovo codice minerario, perché dà la possibilità e l’opportunità alle cooperative di minatori di ottenere un titolo e il permesso per l’esportazione.”

“Le donne devono essere formalizzate attorno a delle cooperative con tutti i documenti e devono anche crescere in termini di capacity building. Per ottenere finanziamenti dalle banche o da qualunque altra istituzione, devono mostrare di possedere buone capacità gestionali. Inoltre, ora abbiamo anche un vantaggio con il nuovo codice minerario, perché dà la possibilità e l’opportunità alle cooperative di minatori di ottenere un titolo e il permesso per l’esportazione.”

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La borsa
delle pietre preziose

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La questione femminile è diventata di primaria importanza da quando è stato formalizzato il network di RENAFEM nel 2015. “Ho preso parte sia alla prima che alla seconda conferenza a Lubumbashi,” dice Mwanza. “Da un po’ di tempo la Banca Mondiale ci teneva a presentare il mio caso come una storia di successo, per spingere le altre donne a credere in sé stesse e a non rinunciare all’idea di emanciparsi tramite il settore minerario.” Ma Mwanza è la prima ad ammettere di non essere come le altre. “Se fossi rimasta nel paesino del Kasai di cui è originario mio padre, non sarei così,” confessa. “L’ambiente in cui sono cresciuta è stata la mia fortuna.” Mwanza è la quinta di undici figli di un noto giudice della Corte Suprema. La legislazione congolese prevede che, chi ricopre questa carica, cambi città di continuo per evitare conflitti d’interesse, e per questo Mwanza fa difficoltà a ricordare la sua giovinezza. Data la levatura sociale dei genitori, lei come i suoi fratelli e sorelle, non ha dovuto rinunciare a una buona educazione e carriera in nome del matrimonio o della famiglia. “E’ nella mentalità locale far credere che essere donna sia una sfortuna, ma io sono cresciuta diversamente,” dice con franchezza.

“Noi donne dobbiamo essere coinvolte e contribuire a trovare delle soluzioni. Non possiamo fare sempre la parte delle vittime. Dobbiamo guardare avanti e trovare una soluzione sia ai nostri problemi di genere, che a quelli governativi o di sicurezza. Dobbiamo essere parte della soluzione.”

“Noi donne dobbiamo essere coinvolte e contribuire a trovare delle soluzioni. Non possiamo fare sempre la parte delle vittime. Dobbiamo guardare avanti e trovare una soluzione sia ai nostri problemi di genere, che a quelli governativi o di sicurezza. Dobbiamo essere parte della soluzione.”

Come le altre donne, anche lei, a suo modo, ha patito, però, l’avvento della guerra. “Avevo molta paura per le nostre vite, ma ero anche preoccupata di dover fare compromessi,” dice Mwanza. “Conoscevo così tante persone, che avrei potuto fare facilmente carriera, ma non volevo lavorare alle dipendenze dei ribelli manipolati dalle potenze straniere.” Mwanza è scappata da Bukavo col marito e ha vissuto in Rwanda per dieci anni fino al 2006, quando ha deciso di tornare per votare alle prime elezioni libere multi-partitiche dal 1946. Si è trasferita stabilmente in Congo nel 2007, quando le è stata offerta la gestione della fabbrica che ancora dirige. Quando il suo operato è stato riconosciuto, le sono state affidate le altre cariche. La nuova missione di Mwanza, oggi, è battere ancora un primato e diventare la prima donna nel Nord Kivu ad avere la licenza non solo per esportare, ma anche per intagliare gioielli finiti.

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Il codice
minerario

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Viviane
Sebahire

È proprio vero che a volte il destino di una persona è già scritto. Ed è questo il caso di Viviane Sebahire, dottoressa specializzata in malattie sessualmente trasmissibili e questioni riproduttive, e coordinatrice dell’associazione SOFEDI (Solidarietà delle Donne per lo Sviluppo Integrale), focalizzata sulla lotta per i diritti delle donne minatrici di Walungu. Già agli esami finali di terza media si intuiva come Sebahire fosse diversa dai suoi compagni. La sua tesi, dal titolo La prevalenza del virus dell’HIV tra il 1990 e il 1994, era articolata a tal punto, da attirare l’attenzione di un medico di Kinshasa, giunto a Bukavo per finanziare un programma contro l’AIDS nel Sud Kivu. Con quel plico di fogli scritti a penna da una bambina, che aveva, però, saputo riassumere brillantemente in cosa consistesse la piaga dell’AIDS nell’intera provincia, il medico era volato in Belgio e, grazie a lei, aveva ottenuto dei fondi. A soli 15 anni, Sebahire è entrata a far parte del primo team di ricerca del programma riproduttivo del Sud Kivu. Nel frattempo, ha continuato gli studi, si è sposata e ha avuto dei figli. “Avevo già un maschio e una femmina, quando mia madre, una donna progressista per l’epoca e per il Paese, mi ha spinto a tornare a frequentare l’università, dicendo che si sarebbe presa cura lei di loro,” spiega Sebahire. “È stata lei a convincermi a prendere la pillola contraccettiva, per dedicare i quattro anni successivi allo studio e alla mia carriera. Devo a lei quello che sono.”

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I casi di violenza e i grandi stupri sistematici contro le donne sono cominciati negli anni ’90, si sono acuiti durante le due grandi guerre, conclusesi formalmente nel 2003, e sono diventati routine nel biennio 2006-2007. “All’epoca lavoravo per Medici Senza Frontiere e mi battevo affinché le autorità si facessero garanti dei programmi di terapia antiretrovirale per rallentare la moltiplicazione del virus,” dice Sebahire, ancora visibilmente scossa. “Di quel programma era entrato a far parte anche il comandante rwandese a capo della rivolta, che era HIV positivo, ma io non potevo sapere che il suo coinvolgimento fosse una farsa.” Una notte, il comandante ha mandato alcuni dei suoi a rapirla, probabilmente ad abusare di lei, ma suo marito è riuscito a nasconderla e a farla scappare. “Aver visto così tante donne spezzate dalla guerra, e sapere che avrei potuto essere una di loro, ha contribuito a farmi impegnare di più,” afferma Sebahire, “ma, come vi ho detto, il mio interesse per il tema precede tutto questo.” Dal 2006 Sebahire ha iniziato ad aiutare anche le donne minatrici, distribuendo contraccettivi per limitare la diffusione delle infezioni sessuali. È stato allora che ha preso maggior consapevolezza degli abusi, non solo fisici, cui queste donne sono costantemente sottoposte, e ha deciso di creare un programma ad hoc per promuoverne i diritti.

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Le minatrici:
sfide e problemi

Veronique
Miyengo
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“Abbiamo scoperto che le donne non venivano fatte entrare nei siti, perché non possedevano le “carte da visita”. Per carte da visita intendo che le donne avrebbero dovute essere sottoposte a dei test, per verificare che non avessero contratto malattie sessualmente trasmissibili o l’HIV. Ma, invece di procedere così, qualcuno ha cominciato a vendere (al mercato nero) carte non autorizzate, dove erano scritti solo il nome, il sesso e se eri HIV positivo o negativo (senza però reali risultati medici). La procedura discriminava fortemente le donne, perché erano le sole a dover mostrare la carta, e a doverla comprare, mentre agli uomini non veniva richiesto.”

“Abbiamo scoperto che le donne non venivano fatte entrare nei siti, perché non possedevano le “carte da visita”. Per carte da visita intendo che le donne avrebbero dovute essere sottoposte a dei test, per verificare che non avessero contratto malattie sessualmente trasmissibili o l’HIV. Ma, invece di procedere così, qualcuno ha cominciato a vendere (al mercato nero) carte non autorizzate, dove erano scritti solo il nome, il sesso e se eri HIV positivo o negativo (senza però reali risultati medici). La procedura discriminava fortemente le donne, perché erano le sole a dover mostrare la carta, e a doverla comprare, mentre agli uomini non veniva richiesto.”

Estirpata una mala pratica, spesso se ne forma rapidamente un’altra. A un certo punto, nel territorio di Walungu, i gestori dei siti hanno cominciato a negare alle donne l’accesso alle cave, previo pagamento di 15,000 franchi congolesi (9 euro). Negozianti, raccoglitrici, minatrici… ogni ruolo era sottoposto allo stesso trattamento. Gli unici lavoratori che non dovevano preoccuparsi di dividere i propri introiti con nessuno erano gli uomini. “Ci sono donne che, ancora oggi, ricevono al massimo 2.7 euro al giorno, e dovrebbero pure pagare l’ingresso?” dice Sebahire, strabuzzando gli occhi. “È pura discriminazione. Abbiamo diviso le donne in gruppi e, tra loro, abbiamo scelto e formato una rappresentante. Assieme al nostro avvocato, abbiamo riunito, e ancora lo facciamo ogni tre mesi, i capi villaggio, la polizia, i gestori dei siti e abbiamo dimostrato, leggi alla mano, che la pratica era sbagliata e andava fermata.” Da quel momento, le minatrici hanno visto migliorare sensibilmente le loro condizioni nell’area e, se gli uomini non smettono di provare a calpestarne i diritti, sono diventate più forti e consapevoli. La scelta di Walungu come prima zona d’intervento è stata casuale. “Siamo stati contattati dai gestori dei siti per paura del contagio di HIV,” spiega Sebahire, “e quando siamo arrivati, ci siamo accorti che c’erano molti altri problemi.”

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In generale, però, la situazione delle donne nel settore minerario artigianale è ancora molto difficile e, a diversi livelli, tutte indifferentemente sono sottoposte a varie forme di discriminazione da parte degli uomini. Un caso a parte è quello delle donne costrette a negoziare l’accesso ai siti tramite prestazioni sessuali. La dottoressa Sebahire sostiene, e non è l’unica, che: “Se vanno protette dal punto di vista medico, non sono da considerarsi, però, più vulnerabili delle altre dal punto di vista sociale.”

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Il sesso
come transazione

Fideline
Mubukyo
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“ Il sesso è parte del lavoro che le donne svolgono nei siti minerari. Noi, però, abbiamo un team di due persone basate lì (a Walungu), che tiene corsi su consapevolezza e comunicazione, per incentivare cambiamenti comportamentali. In quelle occasioni, distribuiamo preservativi gratis e organizziamo uno spazio per tutti coloro che vogliano fare il test dell’HIV. Consideriamo questa una sorta di forma di prevenzione. Se qualcuno entra nello spazio da noi allestito e scopre di essere HIV negativo, da quel momento si prenderà maggior cura di sé stesso e userà sempre i preservativi distribuiti gratuitamente.”

“ Il sesso è parte del lavoro che le donne svolgono nei siti minerari. Noi, però, abbiamo un team di due persone basate lì (a Walungu), che tiene corsi su consapevolezza e comunicazione, per incentivare cambiamenti comportamentali. In quelle occasioni, distribuiamo preservativi gratis e organizziamo uno spazio per tutti coloro che vogliano fare il test dell’HIV. Consideriamo questa una sorta di forma di prevenzione. Se qualcuno entra nello spazio da noi allestito e scopre di essere HIV negativo, da quel momento si prenderà maggior cura di sé stesso e userà sempre i preservativi distribuiti gratuitamente.”

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Emilienne Intongwa

La stagione delle piogge dovrebbe essere finita da un pezzo, ma gli acquazzoni continuano a danneggiare la rete stradale già inesistente. Ogni volta che la 4x4 smette di ballonzolare e si lascia andare alle sabbie mobili fangose che ricoprono il terreno a strapiombo, i muscoli si irrigidiscono. Scongiurata la stessa fine dei veicoli rivoltati sul ciglio della strada, è bene, però, rassegnarsi all’idea che i 180km che collegano Bukavo a Kamituga possano richiedere anche un intero giorno di viaggio. Kamituga è la terza città del Sud Kivu per grandezza, ma consiste in appena una manciata di sentieri di montagna. Centinaia di baracchini si rubano a vicenda il poco spazio lungo la strada principale e mischiano gli spuntini fritti, agli strumenti necessari per la colonna portante dell’economia regionale, ovvero l’estrazione, il trattamento e la vendita d’oro.

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Kamituga

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D’un tratto, nel mezzo di un incrocio dove le vecchie Jeep sfidano le motociclette e i pedoni, per arrivare primi al sito minerario poco distante, spuntano due anziane signore in abiti tradizionali. Indicano all’unisono il cartello ALEFEM (Associazione per Combattere lo sfruttamento delle Donne e i Bambini nel settore minerario) e intimano di seguirle. ALEFEM è frutto dell’impegno e dedizione di Francoise Bulambo ed Emilienne Intongwa e nasce nel 2006, al termine del secondo conflitto congolese che si è riversato su Kamituga con particolare orrore.

Come una fenice che rinasce dalle proprie ceneri, Intongwa ha rielaborato la tragedia vissuta in quegli anni e si è ritagliata un ruolo di primo piano in città. “Mentre cercavamo riparo altrove, le milizie armate dei Mai Mai hanno rapito mio marito e da quel giorno non ho più saputo nulla di lui. Io ho continuato a correre ma mi hanno rubato tutto,” racconta Intongwa. “Quando sono tornata a Kamituga non avevo niente e, visto che fino a quel momento lavoravo nei campi che erano passati sotto il controllo delle milizie, note per ammazzare e stuprare qualunque donna tentasse di riprenderseli, mi sono dedicata ad altro.”

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ALEFEM

Francoise
Bulambo
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“Ho scelto questo lavoro perché, anche se avessi voluto fare qualcos’altro, non avrei potuto. All'epoca non c’era nulla a parte l’estrazione mineraria e l’unica società che fino a quel momento aveva dato lavoro alla gente, SOMINKI, era stata distrutta durante la guerra. Inoltre, mio marito è stato rapito da una milizia e mi ha lasciato sola con sette figli. Dovevo trovare un modo per sopravvivere e dare loro loro da mangiare; l’unica soluzione era l’estrazione artigianale.”

“Ho scelto questo lavoro perché, anche se avessi voluto fare qualcos’altro, non avrei potuto. All'epoca non c’era nulla a parte l’estrazione mineraria e l’unica società che fino a quel momento aveva dato lavoro alla gente, SOMINKI, era stata distrutta durante la guerra. Inoltre, mio marito è stato rapito da una milizia e mi ha lasciato sola con sette figli. Dovevo trovare un modo per sopravvivere e dare loro loro da mangiare; l’unica soluzione era l’estrazione artigianale.”

Intongwa ha chiesto un prestito a un commerciante per esplorare una cava ma, in cambio, gli ha dovuto cedere le carte di proprietà della casa. “Se trovi i minerali, il negoziante sarà il tuo unico acquirente; in caso contrario, o ripaghi il debito o gli cedi la casa,” spiega. “Io i minerali li ho trovati ma mi sono imbattuta in un problema più grande. Era la prima volta che gli uomini avevano a che fare con una donna alla testa di una cava e si sono convinti che fossi una strega. Per salvarmi, ho dovuto indebitarmi ancora di più e pagare i capi locali, affinché mi proteggessero.” Al tempo, essere accusate di stregoneria significava essere sepolte vive.
Anche in seguito, lavorare in miniera non è stato facile. “La sfida più grande per me è stato lavorare con così tanti uomini,” racconta. “Quando ancora non avevo un rapporto solido con i miei ragazzi, molti rubavano i minerali che estraevano dalla mia cava e ho dovuto pagare un sacco di soldi, per avere qualcuno che li controllasse.” Per non parlare di quando donne e uomini si sono trovati a lavorare fianco a fianco per la prima volta. “Il motivo per cui ho co-fondato ALEFEM è stato che moltissime minatrici dopo pochi mesi erano già incinte,” dice Intongwa, sbuffando, “e ho deciso di creare un network dove si parlasse dei loro diritti, anche riproduttivi.”
La cava di Intongwa si trova nella parte meridionale del sito di Kamituga, dove l’estrazione artigianale è fiorente nonostante la concessione industriale, in violazione del codice minerario. Con gli uomini impegnati a estrarre i minerali sottoterra e le donne sfiancate dopo ore passate a badare a tutto il resto, il microcosmo operoso che gravita attorno a lei riflette molto bene l’andamento nel restante e gigantesco formicaio che è Kamituga. Ma Intongwa ci tiene a precisare una cosa.

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“C’è una grande differenza tra le condizioni di lavoro nel mio sito e in quelli degli altri. Io parlo con le donne e spiego loro che diritti hanno e come devono farsi trattare dagli uomini. Negli altri siti se ne fregano e le donne sono molto più discriminate.”

“C’è una grande differenza tra le condizioni di lavoro nel mio sito e in quelli degli altri. Io parlo con le donne e spiego loro che diritti hanno e come devono farsi trattare dagli uomini. Negli altri siti se ne fregano e le donne sono molto più discriminate.”

Oltre a sporcarsi le mani, Intongwa è anche una delle rare imprenditrici nel settore artigianale a Kamituga, e sa che per crescere e raggiungere una solidità economica ha bisogno di altro, ovvero una cooperativa. “Gli uomini non vogliono dividere con noi i proventi della vendita dei minerali e ostacolano in tutti i modi il nostro accesso alle cooperative. Per questo, voglio formare una cooperativa di sole donne,” spiega Intongwa. “Purtroppo, sia per ottenere l’autorizzazione dalle autorità che per mantenere la cooperativa, servono soldi, ed è difficile fare affidamento sulle donne minatrici, che faticano ad arrivare a fine giornata.” Nonostante tutto, Intongwa riconosce che al settore minerario deve la vita. “Anche se all’inizio mi hanno accusato di essere una strega, ringrazio Dio per quello che mi ha concesso,” conclude con gli occhi pieni di lacrime.

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Mama
Twangaises

Se il settore minerario artigianale sta offrendo nuove opportunità alle donne, la stragrande maggioranza delle minatrici, oggi, è ancora vittima di abusi fisici e psicologici. Nel gigantesco sito aurifero di Kamituga, prima di percorrere la ripida discesa che porta alle cave, c’è un’area pianeggiante dove sono accatastate baracche di lamiera, da cui fuoriesce un rumore martellante. All’interno, sedute per terra senza scarpe, ci sono gruppi di donne esauste, che colpiscono con bastoni pesanti dalla punta metallica le pietre di quarzo. Il proprietario del sito, con indosso grossi stivali da pioggia, le bacchetta dall’alto. Sono le mama twangaises, termine che, se negli altri siti minerari indica tutte le donne minatrici, a Kamituga si traduce nello strato più basso della piramide estrattiva, ovvero nelle sole “spaccatrici di pietre”. “Far fare alle donne questo lavoro è l’ennesima dimostrazione di quanto siano discriminate,” dice Francoise Bulambo, fondatrice di ALEFEM. “Un po’ come a casa, dove gli uomini stanno a guardare mentre le donne sbrigano le varie faccende, così succede anche qui. Gli uomini non si vogliono sporcare le mani e, piuttosto che far qualcosa, stanno a guardare le donne che si spaccano la schiena.” Non è un eufemismo. “Mi sveglio ogni giorno alle 6 e ci metto 2 ore per venire qui,” dice la 27enne Neema Muyengo, che dimostra almeno dieci anni di più, con il sudore che le cola dalla fronte. “Ogni giorno l’unica cosa che faccio è frantumare pietre ma non ho scelta: devo badare alla mia famiglia. Visto che a volte non vengo neppure pagata, tutto questo lavoro è inutile.” Se dopo aver ridotto il quarzo in polvere finissima, le donne trovano qualche frammento d’oro, ricevono al massimo 1 euro; al contrario, non ricevono nulla. “Mentre gli uomini nelle cave trovano sempre minerali, anche se in piccole quantità, noi passiamo intere giornate a spaccare pietre per niente,” ribadisce Wabiwa Masoga, divorziata e con tre figli a carico. “Devo lavorare il triplo delle altre ed è dura, perché sono costantemente esposta ad abusi. Quando perdo una pietruzza, che magari non contiene oro, gli uomini mi umiliano o mi picchiano, e mi accusano di essere una ladra. A volte ho rubato, è vero, ma solo per necessità.” Spesso le mama twangaises sono costrette a negoziare la loro posizione e l’accesso ai siti offrendo in cambio il loro corpo. Neppure in quel caso il loro compenso è garantito, perché i soldi dipendono sempre dalla partita d’oro che avranno la (s)fortuna di scovare. A rendere questo lavoro ancora più inviso è la tossicità del quarzo che, a lungo andare, può causare la tubercolosi. “Molte delle mie amiche si sono ammalate e alcune sono morte,” dice Muyengo. “Se vai all’ospedale, troverai tantissime donne in fin di vita.”

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Chi è Marie Rose
Bashwira Nyenyezi?

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Nonostante gli sforzi che associazioni come ALEFEM fanno per entrare in contatto con le mama twangaises, e per convincerle a partecipare ai loro incontri e alzare la testa contro i soprusi che subiscono giorno dopo giorno, solo poche fino a oggi vi hanno aderito. “Quando riesci a guadagnare qualcosa, lo spendi a casa per i tuoi figli, e quando torni qui il giorno dopo, ricominci tutto da capo,” dice Masoga. “Anche volendo, non riusciamo a mettere da parte i soldi da investire in altro.” Sebbene la quota associativa mensile sia piuttosto bassa – dell’ordine di un paio di euro -, è sempre troppo alta per donne che faticano ad arrivare a fine giornata. Inoltre, in un intricato gioco del gatto che si mangia la sua stessa coda, se le associazioni funzionano fintanto che partono dal basso e dalle minatrici stesse, come sostiene la ricercatrice Marie Rose Bashwira, le mama twangaises criticano queste sovrastrutture che, a loro dire, non le rappresentano e faticano a capire i drammi quotidiani che stanno vivendo.

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Donne
minatrici

Al termine delle Grandi Guerre, c’è stato un forte incremento nel numero di donne che sono entrate a far parte del settore minerario artigianale (SMA). Ciò principalmente per due motivi: da un lato, il declino economico che ha investito tutte le province orientali e, dall’altro, il calo di opportunità offerte da settori tradizionali, come l’agricoltura, per il sostentamento delle comunità rurali. Le donne si sono riversate con relativa facilità nel SMA, perché, ancora oggi, è un settore che non richiede né capitali, né particolari competenze. La verità è che il SMA, tenute conto di tutte le difficoltà e i problemi che genera, ha offerto alle donne opportunità economiche introvabili altrove. Le principali mansioni svolte dalle donne nei siti minerari sono racchiuse nel termine, droumage, che comprende la frantumazione, scelta e lavaggio dei minerali e, a seguire, il setacciamento dei minerali ridotti in polvere, il trattamento degli scarti e la vendita. Le donne operaie che gestiscono le fasi successive all’estrazione hanno, però, tutte un loro appellativo specifico.

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Le ransporteuses (o mama kasomba) trasportano la sabbia e le pietre in sacchi da 25 chili l’uno (per cui ricevono 1,3 euro a tratta) dalla cave fino alle donne (le twangaises) o alle macchine, incaricate di frantumarle; le hydrauliques raccolgono l’acqua per raffreddare la pressa; le songeuses preparano la sabbia macinata, bagnandola fino ad ottenere una melma fangosa; le laveuses lavano la polvere; le bizalu recuperano la sabbia scartata; le souteneuses svolgono mansioni accessorie, come procurare benzina, strumenti di lavoro e cibo per i minatori e, infine, le negociantes si occupano della compravendita dei minerali e pietre preziose. Queste attività dipendono dalla domanda quotidiana e possono variare di volta in volta. A queste, si aggiungono anche le donne che gestiscono piccoli business nella ristorazione e le prostitute. In generale i proventi variano da 0.50 centesimi a 9 euro, ma è raro che si tocchi la soglia massima.

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Tormalina

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Al termine di ogni giornata di lavoro le donne minatrici di Walungu si raccolgono e cantano insieme un inno che parla di sé stesse, delle loro vite e delle loro quotidiane battaglie.